di Francesco Sticchi, - francescosticchi@gmail.com
Ph.D Film Studies,
Oxford Brookes University.
Premessa di Andrea Segre: non credo di aver mai pubblicato sul mio blog una recensione di un mio film, ma questa la voglio pubblicare non per il giudizio positivo qui contenuto, ma per dare merito al lavoro di analisi che Francesco ha fatto, che ha aiutato anche me a capire meglio il mio film. Sarei stato quasi più contento se il giudizio fosse stato negativo, così l'avrei pubblicata senza nessuna remora! Grazie Francesco.
Il cinema politico non sempre riesce nell’ardua
operazione di integrare profonde intenzioni concettuali ed etiche con adeguate
scelte sul piano estetico ed espressivo. É il caso di molti film sul mondo
della finanza e sulla crisi dei mutui subprime. Ad esempio, Margin Call (Chandor, 2011) è un film
che si presenta con una sceneggiatura articolata, ma risulta poco efficace e
macchinoso nel raccontare le dinamiche di Wall Street. Sullo stesso tema,
invece, The Big Short (Mckay, 2015) riesce
nel combinare una scrittura efficace ad un montaggio complesso e frenetico e a singolari
innovazioni stilistiche per esprimere gli anarchici, e a tratti grotteschi,
meccanismi dell’economia mondiale. Le scelte estetiche, però, non coincidono
solo con la particolare efficacia di un’opera. Come insegnava Walter Benjamin,
esse tradiscono anche un posizionamento etico e politico, che viene da noi generato
ed esperito attraverso un rapporto dialogico e creativo con tutte le superfici
materiali (direbbe Giuliana Bruno) di cui è composta un’opera audiovisiva.
Da questo punto di vista,
l’ultimo film di Andrea Segre, L’Ordine
delle Cose (2017), appare tanto più interessante e indispensabile oggetto
di analisi, dal momento che ci troviamo di fronte ad un’opera che affronta
scottanti tematiche politiche con altrettanto forti intenzioni etiche. Ciò che
colpisce del film, infatti, oltre al suo rispondere dell’urgenza di raccontare
le migrazioni e gli accordi infausti con le milizie libiche, è la sua
complessità estetica e la sapienza che Segre dimostra nella selezione dei materiali
a sua disposizione. Segre, anche regista di numerosi notevoli documentari, si è
affermato con le sue opere di finzione precedenti, in particolare con Io Sono Li (2011) e La Prima Neve (2013), grazie ad uno sguardo poco incline alla
dialettica e alle facili dicotomie. In questi lavori appare evidente la
necessità di raccontare l’incontro fra migranti e italiani ‘autoctoni’ come un
divenire di individui dalle identità mobili e transitorie, anche se portatrici
di memorie profonde, di desideri contrastanti, di ansie e paure. Emergono,
quindi, storie intime di persone che condividono un simile ‘spaesamento’ (la perdita,
la solitudine, la mancanza di prospettive), pur non negando la complessità
sociale e i rapporti di forza all’interno dei quali tali individui si trovano
ad agire. In questo modo si afferma la capacità di costruire relazioni fra
gruppi che si presumono diversi, e la difesa delle identità diventa futile di
fronte alla realtà meticcia dell’umano e alla sua complessità.
In modo simile, per raccontare
la tragedia degli sbarchi che riempiono (in modo poco degno) le colonne dei
nostri quotidiani, Segre sceglie la prospettiva di Corrado Rinaldi (affidato
alla sapienza attoriale di Paolo Pierobon), super-poliziotto inviato dal
Ministero degli Interni in Libia per trovare un accordo con le milizie e porre
un freno agli arrivi. Questa singolare scelta registica permette, da un lato,
di evitare facili manicheismi e, dall’altro, di porre la/lo spettatrice/tore in
relazione con un personaggio complesso, teso fra necessità di compiere il suo
dovere e la scelta di salvare Sadwa, giovane profuga Somala, desiderosa di
raggiungere suo marito in Finlandia. Attraverso Rinaldi accediamo all’orrore
delle carceri libiche, ci confrontiamo con personaggi disumani o troppo umani
(come il cinico funzionario Luigi Coiazzi, interpretato da Giuseppe Battiston)
e proviamo il suo conflitto. Le sequenze in cui lo vediamo esercitarsi a tirare
di scherma sono le più efficaci nel rendere un personaggio perennemente teso,
ma cionondimeno controllato, elegante come nelle sue stoccate.
Inoltre, benché il film tocchi
spesso le corde del dramma, si rimane lontani da un facile estetica tragica e
da una spettacolarizzazione del dolore. La violenza della condizione dei
migranti è mostrata, ma attraverso gli occhi di Rinaldi. La macchina da presa
rimane su di lui e sulle sue emozioni trattenute mentre ispeziona il ‘centro
d’accoglienza’ gestito dal capitano di ventura Yusuf; la vista dei migranti è
filtrata da sbarre, grate, penombra; come Rinaldi, non li guardiamo
direttamente, ma sappiamo che ci sono e sentiamo la loro presenza intorno.
Questo pudore di fronte alla tragicità della condizione dei migranti non
implica una negazione del dramma; al contrario, non ci permette di assumere
pose facilmente moralistiche e pietistiche e, pertanto, ci impedisce catarsi e
consolazioni. Percepiamo di essere di fronte a un problema complesso, che
riguarda Rinaldi, ma che fa da sfondo a tutte le nostre vite. Segre sceglie
tempi lunghi e inquadrature stabili per raccontare il dramma e il conflitto del
protagonista, permettendoci così di assorbire con calma tutte le sfumature
problematiche della vicenda. Risulta efficacissimo, inoltre, il contrasto, poco
forzato, fra la tensione emotiva provata da Rinaldi (e da noi) durante l’ispezione
in Libia e la placida fissità e grazia delle forme, in particolare nelle
sequenze che lo dipingono con la famiglia, nella sua casa di Padova. Il
sacrificio di un’azione più dinamica ed emotivamente concitata non fa, però, de
L’Ordine delle Cose un’opera
contemplativa e astrattamente riflessiva. Al contrario, contribuisce a
costruire un film aperto, irrisolto, e pertanto più potente nelle sue
intenzioni etiche poiché interroga la/lo spettatrice/tore, e ci obbliga, come
il protagonista, a prendere posizione, a scegliere.
Attraverso il turbamento che si
prova vedendo scorrere le immagini, vengono in mente le parole di Deleuze che,
commentando il Primo Levi de I Sommersi e
I Salvati (1986), parla di una vergogna di essere uomo, che non è senso di
colpa, ma consapevolezza degli orrori di cui siamo capaci e artefici, di fronte
ai quali è impossibile dichiararsi neutrali o estranei. Al contempo, questa
coscienza è anche motore per creare, inventare, resistere alla quotidiana
banalità del male. Per questo si esce dalla sala chiedendosi in nome di quale ‘ordine
delle cose’ sia giusto dividere, separare, espellere, confinare gli uomini e in
che modo tutti noi, come Rinaldi, ci facciamo funzionari, difensori e promotori
di questo ordine. L’Ordine delle Cose
è un grande esempio di cinema politico, non solo perché combina una raffinata
riflessione con la consapevolezza della forza dei mezzi espressivi che impiega,
ma perché nega l’estraneità e la distanza della/o spettatrice/tore e, pertanto,
riesce nel farsi propulsore di una domanda etica, irrisolta, ma necessaria.
Riferimenti
bibliografici
W. Benjamin, L’Opera
d’Arte Nell’Era della sua Riproducibilità Tecnica, Einaudi, Torino 2000.
A. Boutang, C. Parnet, Gilles Deleuze: Abecedario. DERIVEAPPRODI srl, Roma 2010.
G. Bruno, Surface: Matters of
Aesthetics, Materiality, and Media. The
University of Chicago Press: Londra 2014.
P. Levi, I
Sommersi e i Salvati, Einaudi, Torino 2007.