Esce in questi gironi sulla Rivista "Gli Asini" un articolo di Gianfranco Bettin sul mio film L'Ordine delle Cose, leggendolo ho capito cose che non sapevo sul mio film. Così ho pensato di pubblcarne un estratto qui. Il resto lo trovate in libreria, insieme ad altri importanti articoli. Comprate "Gli Asini".
L'ordine inquieto delle cose.
di Gianfranco Bettin
Le migrazioni sono il
movimento reale che cambia lo stato di cose presente. Che lo cambia davvero, in
profondità e in estensione, che lo cambia di natura. A volte in modo lento, nel
tempo lungo e negli spazi dilatati della storia umana e del mondo intero. A
volte in modo urgente, drammatico, come nell’attuale contingenza d’epoca e nel
nostro specifico crocevia geografico, mediterraneo. E’ così da sempre, dalla
notte dei tempi, e ciò malgrado, ogni volta i custodi dell’ordine delle cose
reagiscono spiazzati e impauriti. Registrano e descrivono i movimenti migratori
come meri fattori di disordine e minaccia, ignorando che tali distorsioni sono
direttamente proporzionali all’incapacità di accettarli e gestirli con
raziocinio e giustizia.
Si esercita in questo
compito Corrado Rinaldi (Paolo Pierobon), in apparenza il personaggio centrale
del film di Andrea Segre, intitolato appunto L’ordine delle cose. E’ un fedele e democratico servitore dello
Stato, con una bella famiglia e una bella casa, con buoni studi e già
eccellente schermidore olimpico. Forse è un “moderato”, forse è un
“progressista”: nella tartufesca tipologia politica italiana capita che le due
cose coincidano (e che, nel coincidere, distruggano il significato di entrambe).
In certi casi, però, e in questo l’Italia odierna è fantastica, è proprio
confondendosi che le due tipologie si esaltano. Il film di Segre ne dà un
esempio preciso. Quando Rinaldi incontra una donna somala, maltrattata come
tutti e (in particolare) come tutte nelle gabbie della vigilanza libica, il suo
essere un “moderato” gli fa sentire appieno il disagio di uomo civile di fronte
a quelle persone prigioniere come animali, mentre il suo voler fare qualcosa
per lei, il suo provarci addirittura, gli insuffla un impeto “progressista”
capace, in potenza, di modificare una situazione, un destino.
Tutto questo viene evocato
o descritto senza enfasi ma in modo inconfutabile, in un film in cui anche i
silenzi sono scritti benissimo - dallo stesso regista e dal co-sceneggiatore e
soggettista, Marco Pettenello - e in cui l’essenziale, nitida fotografia (di
Valerio Azzali) fa sentire la presenza anche di ciò che non viene mostrato (i
luoghi d’origine dei migranti; il mare, rotta obbligata per raggiungere un
altrove e chi è già riuscito a toccarlo, ma anche trappola tragica, tomba
d’acqua; il potere tribale e feroce in Libia e il potere felpato e cinico in
Italia e in Europa…).
E’ un gran bel film di
per sé, senza altri aggettivi, L’ordine
delle cose. Ma è anche il miglior film politico italiano di questi anni.
Politico non tanto per il tema che affronta, ma per il modo in cui lo fa,
elegante e sobrio, senza che ciò significhi rinunciare a un punto di vista
forte, a una scelta morale netta, fatta scaturire con naturalezza dalla forma e
dall’andamento del racconto, dall’estetica in cui si esprime non meno che dalla
posizione etica che assume.
Due aspetti, in
particolare, ne rivelano l’alta intensità politica. Il primo ha a che fare con
chi è davvero la figura centrale del film. In apparenza, si è detto, è il
funzionario Rinaldi, che (coadiuvato dal personaggio di Giuseppe Battiston)
deve portare al Ministro dei risultati “notiziabili” (come il definisce il
sottosegretario icasticamente interpretato da Roberto Citran, cioè spendibili
sui media per ammannirli al pubblico e agli elettori, il che significa una cosa
sola: cominciare a ridurre gli sbarchi, quindi ad aumentare i prigionieri in
Libia).
In realtà, Segre mostra
in ogni momento come tutta la storia sia messa in moto da Swada, la donna
somala (scolpita da Yusra Warsama) che, a rischio di rappresaglie, prende
l’iniziativa di rivolgersi a Rinaldi: vuole raggiungere il marito già arrivato in
Finlandia, vuole dare notizie ai parenti che sono a Roma. Chiede aiuto,
dignitosa e determinata. D’altronde, non ha attraversato i deserti? Non ha
sfidato trafficanti e gendarmi? Non affronterà il mare aperto? Non affronterà
tutto il resto, l’intera odissea che ognuna delle persone che nel film vediamo
ridotte in prigionia è disposta ad affrontare?
E’ Swada, pur rinchiusa,
ad agire. E’ lei a creare il movimento, a dare sviluppo alla trama: ed è questa
scelta di regia e di sceneggiatura a rendere politico il film, perché ci mostra
qual è il vero motore della storia. Lo è nel film come nella realtà, nella
vicenda personale di una donna immaginaria come nella vita reale, quindi nella
Storia, di milioni e milioni di donne e di uomini autentici.
Il
secondo aspetto ha invece a che fare con quello che sembra il dilemma di Rinaldi,
e che si scioglierà soltanto all’ultimissima scena del film .... continua nella rivista.