Provo ad ascoltare il silenzio.
Cerco un perché, un dove, un come. Sento il vibrare doloroso del non poter dire.
Non oso più credere al senso delle parole.
Il rumore del mare è più forte.
E’ immenso, infinito, non lascia più alcuna via di scampo all’evidenza del tragico.
Che senso ha oggi, di fronte a questa nuova annunciata tragedia, ricordare di averlo previsto?
Tutto. In tanti avevamo detto tutto.
Raccontato, mostrato, ricordato.
Centinaia di volte.
Ma perché? Perché, dico io, abbiamo voluto credere che il potere disumano dei “fora dai ball” davvero potesse ascoltare? Perché abbiamo avuto fiducia nella loro assenza di umanità? Non dovevamo: abbiamo solo alimentato illusioni.
E oggi il silenzio profondo del mare è più forte. Immenso.
Ma in questo silenzio rimane ancora un’ultima parola da alzare alta, vibrante e quasi immobile, come la morte: li avete uccisi voi.
Non c’è alcun dubbio.
I profughi eritrei, etiopi, sudanesi, ivoriani partiti da Zuwhara e morti affondati nel più grande cimitero della post-modernità, il Mediterraneo, sono esattamente quelli che il governo italiano ha respinto dal maggio 2009, impedendo loro di avere protezione umanitaria e consegnandoli alle carceri e alle violenze del regime libico.
Era dal 2006 che l’Italia aveva notizie chiare e provate di violenze disumane perpetrate dalla polizia libica ai danni dei migranti: deportati in container, detenuti, violentati, privati di qualsiasi diritto e identità. Ma a nulla sono servite quelle notizie per fermare gli accordi con Gheddafi. Lo scopo era uno solo: “fora dai ball”. In centinaia continuavano a cercare la fuga via mare, incontrando spesso la libertà, ma molte volte anche la morte. Rischiavano la morte pur di fuggire: e l’Italia invece di salvarli, li ha definitivamente consegnati al destino libico. In quello stesso mare-cimitero sono iniziati i respingimenti: “state fuggendo dall’inferno rischiando la vita? Noi vi rispediamo all’inferno: fora dai ball”. Dal maggio 2009 al febbraio 2011 il loro calvario in Libia è diventato assoluto e senza via di scampo. Come corpi di animali in un paese governato da un regime. Poi nel febbraio 2011 quel regime è stato finalmente attaccato dal suo popolo ed è diventato improvvisamente nemico dell’Italia; in questa nuova situazione quei corpi animali si sono trovati in completa balia di una situazione di confusione bellica, minacciati come “mercenari” e privi di alcuna via di fuga. Gli altri stranieri (i lavoratori egiziani, tunisini, cinesi e altri) sono fuggiti dalle frontiere via terra: molti di loro non potevano o perché non ne avevano i mezzi o perché rischiavano la vita ad uscire allo scoperto. Poche settimane fa al telefono dalla Libia una donna eritrea ce l’aveva raccontato chiaramente: “qui rischiamo la vita; dobbiamo stare in casa e non abbiamo nemmeno il latte per i nostri bambini. Aiutateci.”
L’Italia doveva farlo: la sua responsabilità storica e politica era evidente. Ha iniziato a farlo portando con due voli c130 poco più di 100 eritrei. Ma l’ha fatto in silenzio, per non contrastare le voci potenti dei “fora dai ball”. E presto ha smesso di farlo. Li ha lasciati lì. E ha iniziato a bombardare.
Sotto i bombardamenti il regime di Gheddafi ha iniziato a sfaldarsi e ha deciso di contrattaccare. Usando anche i corpi dei profughi come proiettili umani. Ha deciso di lasciarli passare. Via mare.
Piccole, vecchie barche hanno iniziato a partire dalle spiaggie libiche. Ed in mezzo al Mediterraneo hanno incontrato il loro destino: il mare, l’immenso silenzioso mare.
Li ha uccisi il mare?
No. Li hanno uccisi i signori “fora dai ball” e il loro ex-amico dittatore. Li hanno uccisi loro.
Ma con loro, purtroppo, anche la più tragica condizione umana a cui è ridotta la nostra civiltà: esser convinti che la protezione del nostro privilegio sia più importante della vita umana. A qualsiasi costo, “fora dai ball” e dentro al mare.
Sia chiaro una volta per tutte: se la nostra civiltà non sarà capace di liberarsi da questa condizione e di riscattare la sua dignità, non potrà che continuare a produrre poteri xenofobi e tragedie umane.
E ora per favore, silenzio.
Proviamo ad ascoltarlo. Cerchiamo almeno in questo silenzio la forza di ricominciare ad essere civili.