Memoria e souvernir
Diario di un ritorno nei Balcani
Scivolando tra le rupi profonde dei Balcani lo sguardo si riempie di storia e l’aria è respiro di memoria.
I fiumi Moraca e Tara scorrono lungo l’ultimo confine inventato dalla modernità postjugoslava, quello tra Serbia e Montenegro. Scorrono da millenni. Le loro acque sono lisce tavole smeraldine infilate tra alte ferite di roccia grigia. L’acqua scava, segna, fende le montagne. La pietra fredda si lascia attraversare e quasi immobile si sposta. Piano. Nei secoli. Pochi tronchi spogli si inerpicano lungo i dirupi, le loro radici sono unghie di acciaio nelle pietre. Il cielo sta lì, sopra loro, attraversato da nuvole veloci e pesanti. L’acqua è quasi verde, azzurra come un prato e verde come un mare. La sua superfiicie in alcuni tratti è liscia come il metallo. E’ azzurra come una lastra di acciacco. Quasi grigia. Ma molto meno grigia delle montagne. E affianco all’acqua scorrevo io.
Con la testa appena fuori dal finestrino, l’aria negli occhi, le mani a giocare nel vento, il cuore a vibrare nel silenzio. Le pietre si alternano, veloci, uguali. Sono strisce che scorrono nell’aria. Sono pezzi di storia che io non conosco ma che sento. E’ come se ci fosse qualcosa in quel silicio millenario che possa appartenere alla mia identità. Il rimorchio giallo del tir serbo entra al millimetro nella galleria davanti a noi. Io chiudo gli occhi e la storia di un pope ortodosso si intreccia con quella di un matematico ebreo. O forse etiope. I loro volti sono preghiere. Non ci sono chiese, non ci sono gerarchie. C’è il rapporto impossibile con l’inafferrabile del nostro essere. L’acqua della Moraca continua a scorrere e in lontananza si sente il fruscio di una piccola cascata. E’ quella del Monastero di Moraca, utilizzata dai pope per generare elettricità Una piccola turbina, che ancora non funziona. Così la chiesa di Sveti Stefan al tramonto diventa buia e la luce delle candele di miele non possono illuminarla. Agnese si incolla a me. In braccio a guardare confusa e affascinata (o forse impaurita) la piccola barba del giovane pope. Parla solo in serbo; io capisco molto poco e quasi non parlo. “ Di che religione sei” mi chiede. Io, protetto dall’ignoranza di una lingua che non conosco, palro di un padre ebreo e una madre cattolica. E affermo, falso, la mia confusione. “Ja? Konfusja” E sento strana nella mia mente la paura di credere a quella bugia. Il fascino di sentirmi per una volta, almeno per una volta coccolato e alleggerito dall’assurdità del divino. Gli affreschi bizantini coprono tutta la cupola della chiesa grande; i santi sono immobili e alti nella loro ieracità, segnati dall’oro dei candelabri e dal fumo degli incensi. “E lei?” chiede il giovane pope sfiorando Agnese. “Lei ancora nulla. Poi un giorno deciderà” Le poche parole di serbo mi bastano per consegnargli la mia verità. Ed è talmente chiaro il mio pensiero che anche lui, religioso di professione, sembra accettarlo. La guarda. Il fuoco di un falò segna la notte lungo una collina oltre la Moraca. Sono i fuochi per preparare la terra all’estate. Sono i fuochi dell’ultimo freddo. Il sole ormai è sceso e il fiume scorre ormai blu, lasciando piccoli spazi tra le montagne alle stelle e ad una luna velata che osa lambire la cupola del Monastero. Lui sorride, entra nella cattedrale e porta in regalo ad Agnese un piccolo crocefisso, aiutato maternalmente da sua moglie. Agnese lo accetta e io la accompagno ad accendere una sua candela. Non è una candela per Dio. Nemmeno per un altro Dio. E’ il dono per un’accoglienza umana che quelle pietre ci avevano regalato. Io credo che se la religione non avesse trasformato la sua presenza storica in azione di potere, io avrei potuto anche ascoltarla. Ma poi, mentre risalgo in macchina spiando da lontano il giovane pope e sua moglie, so anche che è ingenuo pensare che possa un pensiero religioso non necessitare di una organizzazione e di una struttura di potere. La mia mano ricomincia a scivolare nel vento freddo della notte e io amo la sacralità della materia. La sua capacità di restituire l’inafferrabile senza bisogno di nessun’altra rappresentanza: io sono devoto alla matericità del nostro vivere, perché ne sento l’emozione della sua nascosta immaterialità. Come sento ancora l’acqua della Moraca scorrere. Come il fieno raccolto nei covoni affianco alle case di campagna. Il puledro sdraiato, la kafana gialla, il burro salato, il tabacco nero, il silenzio di una donna che pascola la sua unica mucca nera. Gli occhi sorridenti di Maddalena di fronte ai suoi primi altipiani dell’est.
Sento il racconto della terra, il carattere immateriale della sua storia. Non so se esista davvero, so che io posso sentirlo. Nei Balcani. E in pochi altri posti al mondo.
Un carattere che s’infila fino ai luoghi meno naturali, dove può diventare testimone di una civiltà perdente, che continua però a portare con sé una dignità che nessuna sconfitta dovrebbe permettersi di estirpare. Priboj è una città industriale inventata in chissà quale anno della storia jugoslava per ospitare le famiglie degli operai della FAP, la Fabrica Automobil Priboj. E’ una spianata chiusa tra un fiume triste e due colline scure, dove in pochi mesi lontani sono stati appoggiati 30 o 40 palazzi razionalisti di cemento, plastica, linoleum e moquette. Sembra ancora finta. Assomiglia ad un anacronistico Truman Show del socialismo titino. Ed è lì. Ancora immobile. Contaminata solo dalle poche postmodernità di bar con schermi al plasma ed insegne americaneggianti. Ma nella sostanza non privato dalla sua immutabile condanna di città-fabbrica. Io a Priboj riconosco senza alcun dubbio la disumanizzazione della sua dimensione sociale, ma sento anche l’importanza di rispettare un’identità urbana e antropologica altra da quella a cui la storia mi ha consegnato. Così mi fermo sul balcone esterno all’ultimo piano del grande Hotel Lim e spio le vite che ancora formicolano nel cemento antico di Priboj. Pensionati fermi con la Drina in mano, Zastava gialle e rosse, donne con la carrozzina blu che attraversano l’incrocio deserto, gli autobus lenti, i cuccioli di cane randagi, le donne dalle permanenti alte e bordeaux, le finestre tutte uguali che si illuminano di arancione e rosa, una piccola bottiglia di Stomaklia nascosta in tasca, una ragazza con i pattini che cerca di capire perché la vita tra quei palazzi ancora debba e possa scorrere. Accendo la mia sigaretta e respiro un’aria quasi immobile. Sento che tra quei palazzi c’è una memoria che l’Occidente non è mai stato in grado di conoscere e che io, senza parole e senza strumenti, non posso che rispettare silenzioso. Io non faccio parte di quella memoria, ma so che ha avuto un ruolo e un’esistenza, e poterla ancora ascoltare e vedere mi riempie di riconoscenza. Perché quelle vite sono vite degne. Vite di uomini e donne che hanno faticato e faticano con il loro corpo e con le loro menti. Uomini e donne che meritano, in questa e in tutte le storie, un rispetto infinitamente più alto dei tronfi potenti che gesticono il mondo nella carrozza laccata del loro ingiusto privilegio e della loro schifosa ricchezza. Le pietre della valle di Moraca e il cemento dei palazzi tristi di Priboj hanno infinitamente più dignità delle bellezze plastificate delle egemonie spettacolari. Per questo continuerò a dedicare il mio agire e il mio raccontare a quelle dignità e contro le arroganze violente del potere oligarchico a cui il mondo ancora è soggiogato.
La FAP è arrugginita, ma ancora aperta. Dicono che siano degli spagnoli a gestirla. Sei operai in tuta blu fanno colazione con noi nella sala ristorante del Grande Hotel Lim. Mangiano salsicce e cipolle, in un tavolo grigio e nero. Il soffitto è ornato da un improbabile design di piccoli tubi viola. Il cameriere spinge un carrello di acciaio. Porta un piatto di pane, tre uova fritte e un te alla malvia. Agnese si alza e fa una foto. Cio’ che mi fa incazzare (forse ormai da troppo tempo per continuare a non agire) è che anche al mercato di Triboj, pure al mercato di Triboj quasi tutti i prodotti, il 90%, almeno il 90% dei prodotti sono importanti. Scaricati da qualche aereo in qualche centro di smistamento, trasportati in qualche Tir lungo qualche autostrada, consegnato da qualche camion sull’asfalto del mercato di Triboj. Nessun contadino, nessuna terra, nessun sapore. Le mele anche a Triboj sono cattive. Peggio, sono inutili. E con loro le banane, le arancie, le patate. L’unico loro valore è quello economico. L’unico sapore è quello economico. Che sapore ha l’economia? Esiste essere umano che mi possa rispondere? O che possa anche solo provarci?
E ciò non ha a che fare con la storia di Priboj, ma con quella del capitalismo globale. Con la nostra storia, quellad egli ultimi 20 anni. La dinamica economica che ha consegnato le nostre vite ad una dimensione extrasociale, non solo non umana, ma nemmeno territoriale. Una crisi di civiltà che è forse l’unico vero legame tra Priboj e Vicenza, tra Priboj e Miami. Noi (io e tutti gli altri che manifestarono con forza a inizio 2000) l’avevamo detto con chiarezza e disperazione: questa strada porta al disfacimento delle energie sociali che danno sneso, dignità e sostenibilità alle vite umane. La nostra illusione era cercare di spiegarlo a chi stava e sta al potere, quasi convinti che non l’avessero ancora capito. La realtà è che invece ci hanno repressi e hanno accelerato lungo la loro strada, proprio perché avevano già ampiamente capito. Così Priboj sta sempre lì. Separata dalla sua memoria e della sua storia sconfitta. Mentre Vicenza o Miami iniziano a tremare, confuse dalla scomparsa delle loro identità e soffocate dagli stessi poteri finanziari a cui avevano creduto di potersi affidare.
L’unica alternativa è il risveglio culturale. Scovare in qualche angolo della sopravvivenza umana la necessità di cominciare ad essere. Essere oltre l’avere. Respirare oltre il consumare. Dire oltre ad ascoltare. Sognare oltre al guardare. Cercare e creare sapori, idee, colori e pensieri, senza accettare che altri ce li consegnino comodi e confezionati. Scalfire la nebbia su cui galleggiano le immagini dei potenti e capire dove nasce il loro predominio e dove finisce la nostra dignità. Segnare nuovi confini tra giustizia e ingiustizia.
Per fare ciò bisognerebbe, ad esempio, non aver paura della propria storia e delle proprie ferite. Riattivare nella memoria la propria differenza. Le proprie differenze, come quelle infinitamente complesse di Sarajevo, l’unica capitale europea capace di avere sulla propria pelle i segni di almeno cinque civiltà e di almeno quattro guerre. L’unica capitale europea tenuta attentamente lontana dall’Europa, da un’Europa troppo impaurita dal poter confondere la propria cristiana solidità.
Per fare ciò bisognerebbe non accettare, come è ormai successo a Mostar, che la memoria diventi souvenir, che la storia sia spogliata dei suoi significati per interessi di poche agenzie turistiche. Il ponte di Mostar è stato ricostruito nel 2005. Io non ero più stato a Mostar dopo il 2002. E’ stato uno shock. Le vie della vecchia città turca che portano al ponte e le rive della Neretva sono oggi del tutto simili ai corridoi e alle hall di un centro commerciale. Soprammobili, finti cimeli di guerra, veli da danza del ventre, bolle di vetro con miniature sotto neve, mini guide illustrate, cappelli turchi, tavolini di plastica, tendoni heineken, gelati confezionati, burek congelati. Tutti negozi uguali, consegnati in franchising a svuotati eredi della storia confusa di quella città: ragazzi e ragazze che ripetono le solite 3 o 4 parole di inglese, per attrarre l’acquisto del turista. Le agenzie scaricano a Mostar i pulman di pellegrini di Medjugorie, regalando loro venti minuti di sospiri compassionevoli con la “storia sfortunata” di quella terra. . Poco importa che gli stessi pellegrini siano appena stati a onorare un luogo di culto di quella stessa religione che avvallò e sostenne gli estremisti herzegovesi che bombardarono il ponte di Mostar. I pellegrini non lo devono sapere e nulla rischia di farglielo sapere in questo nuovo villaggio del souvenir bosniaco. Tutto è silenzio in quelle vie di lucidi ciottoli, dove la memoria è diventata souvenir, dove la dignità della sofferenza è diventata spettacolo di una violenza assoluta e senza responsabili. Unico vantaggio: il soldo. Ultimo terribile baluardo del senso della vita. Non un cartello, non una didascalia, non una contestualizzazione. In uno dei finti sassi prima del ponte c’è scritto: Don’t Forget. Cosa non bisogna dimenticare? La tragedia nella sua assolutezza. Nient’altro. Tutto il resto è dimenticabile, anzi è meglio dimenticarlo. Dont’ Fortget, ma soprattutto Don’t Undertand. Mettiti a disposizione della celebrazione del dolore, dona il tuo obolo al bazar dei souvenir e non chiederti altro. Che tra pochi minuti il pullman riparte. Che se per caso qualcuno si informasse potrebbe addirittura capire che lo smembramento violento della Jugoslavia ha a che fare molto da vicino con la difesa dell’identità cristiana europea, con gli interessi della nuova Germania, con le alleanze tra i signori della guerra balcanica e i poteri euro-americani, con l’impotenza e l’inefficienza dell’ONU, con le strategie dei nuovi equilibri tra NATO e Russia, con l’incapacità europea di accettare la complessità della sua storia. Don’t Understand. Una direzione molto chiara che guida il design offerto dalle agenzie turistiche a Mostar, tanto quanto le chiusure nazionalistiche serbe a Srebrenica.
A Potocarj, vicino a Srebrenica, c’è il memoriale per le oltre ottomila vittime del genocidio perpetrato dall’esercito di Mladic. Non l’avevo mai visto. E’un grande cimitero islamico, non un memoriale collettivo. E’ un pezzo di storia ingabbiato nella sua identità prettamente religiosa. Non esiste alcuna spiegazione, alcuna identificazione storica. Il dolore è assoluto. Chiuso. Immobile. Allontanato da qualsiasi causa. Affidato solo ad Allah e alle parole delle sue autorità religiose. Anche qui l’unica evocazione è quella, già coniata e perfettamente testata dai media occidentali, dell’odio etnico, grande spiegazione onnicomprensiva di dinamiche e processi da cui l’Europa avrebbe potuto imparare molto. Anche qui è meglio non capire. Che se no si potrebbe rischiare di chidersi perché l’ONU ci ha messo 6 giorni a chiedere l’intervento NATO, perché Izedbegovitc non ha protetto la città, perché Belgrado ha lasciato mano libera ai carnefici di Pale e perché ancora oggi Madic è nascosto e protetto. Meglio non sapere. Così in un corridoio chiuso dentro le rovine dell’ex campo base delle forze UN olandesi, di fronte al memoriale di Potocarj, ho trovato per caso una mostra fotografica sulla strage del luglio ’95. Abbandonata, nascosta, volutamente dimenticata. Consegnata allo stesso silenzio in cui è immersa, immobile e spettrale, la città di Srebrenica, e a cui sembrano condannate le campagne della Repubblica Srpska. Lì dove la memoria non può agire, la società congela. Umanamente come a Mostar e Srebrenica o anche economicamente come nelle campagne srpske. Lì dove la memoria diventa souvenir, il mercato costringe la società ad una condizione post-umana dove scompaiono dignità e giustizia. Lì dove la memoria viene sostituita dallo spettacolo e dal suo consumo, la coscienza civile non ha e non può avere alcuno spazio di (r)esistenza.
E i poteri continuano a brindare delle loro grasse ricchezze.
A Mostar come a Vicenza. A Priboj come a Miami.
Mentre la luna continua a guardare le moschee di Sarajevo, mentre la più profonda delle identità europee si muove tra le colline bosniache, i monasteri serbi e le rupi balcaniche e mentre l’Adriatico continua ad accarezzare le piccole isole di fronte a Perast, gioiello antico regalato al mondo dai viaggi verso est dei mercanti veneziani, ringrazio le terre d’Oriente per avermi aiutato ancora una volta a vibrare e capire.